Massimo Capodanno, una carriera di fotoreporter arrivata per caso che lo ha portato a raccontare per immagini la vita
14 luglio 2021, di Vito Pinto, foto di Massimo Capodanno
La cronaca di una quotidianità sociale comune è di frequente cosparsa di avvenimenti Il cui racconto spesso risulta più efficace con una foto che con un intero articolo giornalistico. Se si guarda al secolo appena trascorso, quello definito “breve”, ma così intenso e denso di accadimenti, si resta letteralmente col fiato sospeso di fronte a foto, rigorosamente in bianco e nero a corona di emozioni, che narrano, consegnando alla storia, scene di ordinaria follia umana.
Si pensi all’abbattimento nel 1980 del DC9 Itavia sul cielo di Ustica, all’attentato del 1981 a Papa Giovanni Paolo II in Piazza San Pietro o a quello del 1982 alla Sinagoga Maggiore di Roma. Senza dimenticare quelli collegati al terremoto dell’Irpinia del 1980, alla visita del 1983 di Papa Wojtyla al suo attentatore Mehmet Ali Ağca nel carcere di Rebibbia a Roma, o quella del 1984 in cui il Presidente Pertini sul ponte della nave Vittorio Veneto accolse i soldati italiani reduci dalla missione in Libano.
Avvenimenti che hanno segnato la nostra storia quotidiana, molti dei quali sono stati consegnati alla storia dalle foto di Massimo Capodanno.
Il rapporto con Positano
Romano di nascita, 76 anni, Capodanno ricorda: «I miei genitori all’epoca della mia nascita erano a Lisbona, dove mio padre era funzionario dell’ambasciata italiana in Portogallo, ma mia madre tornò a Roma a partorire, perché il padre voleva vedere il nipote».
Da qui il lungo racconto di una vita da fotoreporter vissuta con intensità. Cominciò a frequentare Positano nel ’72 dopo aver conosciuto la moglie, stabilendosi definitivamente nel 2007, quando andò in pensione dopo 34 anni di lavoro all’Agenzia giornalistica ANSA.
Quasi soprappensiero dice: «Positano mi piace molto, ma è faticosa da abitare. Per comprare un pacchetto di sigarette devo fare 110 scalini». E sovviene alla mente il Nobel per la letteratura John Steinbeck quando nel lontano 1954 di questo paese verticale scriveva: «Non camminate, se andate a trovare un amico: vi arrampicate o vi calate…».
Un inizio casuale
Alla fotografia Capodanno giunse “per caso”, come sottolinea durante una nostra chiacchierata nella sua casa di Positano affacciata su quell’angolo di creato dove, a rimando di Domenico Rea, “Dio, nel giorno della creazione, non dimenticò un solo particolare”.
Era attirato dalla pittura e dalla scultura e si trasferì a Milano per un lavoro di grafico, ma si ritrovò fotografo in una galleria d’arte per i “vernissage” degli artisti.
Nel ’69 si trasferì a Londra dove fu assistente di fotografi di moda e pubblicità come Mark Hammilton e Duncan Willet. Ma quando Germana Marucelli, stilista fiorentina con atelier a Corso Venezia a Milano e fondatrice del premio di poesia “San Babila”, amica della madre e nella cui casa milanese era ospite, vendette alcune sue foto alla rivista “Vogue”, Massimo capì che quella era la strada da seguire.
Il ritorno a Roma lo vide collaboratore dell’ufficio stampa della Rai, de “Il Fiorino” e de “Il Messaggero” per il quale realizzava servizi di spettacolo, politica e attualità.
Poi nel 1973 fu assunto all’ANSA e qui comincia la sua avventura per il mondo. Ricorda: «Ho visto tutti i Paesi del Mediterraneo, tranne la Turchia. Sono stato in tanta parte dell’Europa, non ho visto la Russia e la Cina comunista, ma sono stato a Taiwan per Miss Universo… spesato di tutto».
La radio mobile
A guardare il suo archivio fotografico (o di vita?) ci si rende conto che nei momenti importanti della cronaca, della storia dell’uomo lui era presente. Spontanea la domanda: come faceva?
Sorride, Massimo, poi: «Aerei treni automobili. Avevo una Rover e andavo a tavoletta. E avevo a bordo una radiolina con la quale ascoltavo “doppia vela 21”, la radio della Polizia». Mi punta con i suoi occhi che ne hanno visto tante e aggiunge: «Non era reato, perché era una radio mobile e poi sia i poliziotti che i carabinieri sapevano che avevo questo aggeggio».
Certamente la cronaca, quella che in gergo giornalistico si chiama “nera” è, per tanti versi, affascinante, ma anche terribilmente complicata. Dice Capodanno: «I primi tempi furono problematici, duri, poi i funzionari, gli ufficiali dei carabinieri cominciarono a conoscermi e così a volte mi telefonavano quando c’era qualcosa di importante. Con alcuni di loro ancora oggi mi sento per telefono».
Dallo spettacolo alla politica
Prima della nera, il “vecchio” fotoreporter precisa di aver fatto teatro, televisione, arte, cinema, tutti settori che gli andavano stretti: troppo statici per la sua dinamicità, il suo non saper stare fermo, tant’è che ancora oggi quando si muove porta sempre con sé la sua fotocamera.
«Non si sa mai in cosa puoi imbatterti. La fotografia a volte è anche fortuna, un colpo di c…». E poi c’è stata la politica e quel suo rapporto “privilegiato” con Craxi “mi chiamava spesso per avere le mie foto”, con Pertini che lo ammetteva ad una sua certa privacy, purché stesse buono, e con Andreotti, che un giorno in Siria, dove era andato per incontrare Assad, gli disse: “Mi hai rovinato, hai realizzato il sogno di Forattini”.
L’umanità del fotoreporter
C’è stato anche un periodo in cui era stato destinato a seguire Papa Giovanni Paolo II ma quel giorno dell’attentato a Piazza San Pietro… Massimo non c’era.
Qualcuno più su in redazione lo aveva destinato a seguire un comizio politico a Piazza del Popolo, un comizio che «ho odiato con tutte le mie forze, come ce l’ho ancora oggi con chi mi fece andare a quel comizio, invece di lasciarmi fare il mio lavoro a Piazza San Pietro».
Ricorda Massimo che lui conosceva i funzionari della sicurezza pontificia, per cui avrebbe fatto un servizio eccezionale. E il rammarico si nota, ancora oggi, nella sua voce. Resta la sua mente nella scia dei ricordi “amari”: «C’è una foto che a guardarla ancora mi piange il cuore. Non aver mai potuto riconoscere il soggetto, identificare quel cadavere che galleggiava sul mare di Ustica. Era una donna. Chiesi anche agli amici della Marina Militare, ma non mi seppero dare una risposta».
Di fronte a questa sensibilità, a questa profonda umanità del fotoreporter rimbalzano alla mente quei suoi versi che gli procurarono anche un premio letterario: «Vorrei librare libero e leggero nel cielo / volteggiare e poi volare in picchiata verso il mare / per catturare un pesce da dare ai miei pulcini. / Vorrei volar via lontano verso altri cieli / altri mari altre sponde. / Vorrei volare via con te / e costruire in altre rocce il nostro nido …» e ci si chiede come un poeta possa raccontare la cronaca nera: «E’ il lavoro di ogni giorno, del fotografo e dell’Agenzia».
Un lavoro in bianco e nero per esaltare sentimenti sui volti, per sottolineare emozioni, la drammaticità degli avvenimenti. Poi con i mondiali di calcio del ’90 furono richieste foto a colori e così anche all’ANSA si cominciò a lavorare con il colore.
La foto di domani
Ma il bianco-nero a Massimo piace ancora e non lo disdegna, anzi quando può lo esalta. A guardarlo seduto dietro la scrivania, un angolo a ritaglio di spazio ad affaccio di infinito positanese, il suo racconto anche sui pericoli cui è andato incontro sembrano una narrazione di un film, una fiction che diventa impatto reale quando il reporter apre il suo computer e comincia a mostrare le foto: è l’archivio della memoria, lo scrigno di una vita, il libro della storia.
E ricorda i momenti drammatici in cui sono state scattate, i pericoli corsi. Una volta ha rischiato anche di essere sparato. E’ stato quando i Carabinieri cercavano la terrorista Natalia Ligas. Massimo si era nascosto in un cespuglio. Quando lo scoprirono dovette gridare che era un fotoreporter e si salvò perché uno dei ROS lo riconobbe: “E’ quello dell’ANSA” disse.
A chiedergli se ha una foto che avrebbe voluto fare, una foto sospesa, risponde: «E’ quella che farò domani». A ricordargli i premi, numerosi, che ha ricevuto, risponde semplicemente “qualcuno si è ricordato di me”. Ma urge una domanda: rifaresti la vita che hai fatto?: «Tutta intera, anche ora andrei, anche se le gambe non mi aiutano più tanto».