Creata nel 1681 da una suora di clausura residente nel Monastero Santa Rosa, ex-convento domenicano, oggi hotel di lusso, e’ diventata nei secoli patrimonio culinario Made in Italy
20 giugno 2022, di Anna Volpicelli. Foto di Emanuele Anastasio
« (…) addò t’e magne, fanno arrecrià. So’ sempe na delizia, na bontà So’ doje sore: ‘a riccia e a frolla. Miez’a strada, fann’a folla. Chella riccia è chiù sciarmante: veste d’oro, ed è croccante, caura, doce e profumata. L’ata, ‘a frolla, è na pupata. E’ chiù tonna, e chiù modesta, ma si’ a guarde, è già na festa! Quann’e ncontre ncopp’o corso t’e vulesse magnà a muorze. E sti ssore accussì belle sai chi so’? So’ ‘e sfugliatelle!» (Salvatore di Giacomo)
Soffice, croccante e a tratti cremosa. La sfogliatella è uno dei dolci simbolo della cultura partenopea. E’ il primo sfizio che turisti provenienti da tutto il mondo si godono appena giunti sul suolo campano, ed è il souvenir che portano a casa, per ricordare con gusto in piaceri culinari del territorio. Dagli Stati Uniti al Giappone la fama della riccia ha valicato i confini più distanti soddisfando anche i palati più difficili. Nonostante l’evoluzione contemporanea di questa specialità sia chiara, la sua versione originale pare provenga proprio dalla Costa d’Amalfi, esattamente da Conca dei Marini.
La nascita della Sfogliatella Santa Rosa a Conca dei Marini
Nel 1681, il Monastero Santa Rosa, oggi lussuoso hotel, nel 17th secolo era un convento domenicano che pare sia stato fondato dalla Sorella Rosa Pandolfi, discendente di una nobile famiglia di Pontone. Per secoli il monastero abitato dalle suore di clausura è stato il fulcro della vita religiosa e civile del paese.
Una notte di quell’anno la suora si trovò in cucina con una gran quantità di avanzo di semola. Per non sprecare lo sfarinato rimasto attinse alla sua, probabilmente, innata e divina creatività. Unì la semola al latte a cui aggiunse della ricotta, della frutta secca e del liquore al limone. Successivamente, ripose il composto fra due sfoglie che plasmò dando loro la forma di un cappuccio di monaco. Troppo semplice all’occhio, per guarnirla usò dell’amarena e della crema pasticciera.
Una volta in tavola, il dolce creato fu enormemente apprezzato dai commensali che diventò parte integrante del menu del convento che venne chiamato Santa Rosa, in onore dell’omonimo monastero.
Dalle mura del convento alle mani del pasticcere Pintauro
La ricetta rimase racchiusa nelle mura del luogo sacro per circa un secolo e mezzo, fino a quando, in maniera ancora oggi sconosciuta, qualche dettaglio valicò i suoi confini arrivando al famoso pasticcere Pasquale Pintauro, titolare dell’omonima pasticceria nata a Toledo nel 1818, il quale apportò delle variazione: eliminò la crema pasticciera e l’amarena, e cambiò leggermente la forma.
Tutto ciò diede vita alla sfogliatella riccia, oggi conosciuta in tutto il mondo. Se la versione napoletana ha poi continuato a riprodurre la ricetta di Pintauro, in Costa d’Amalfi nelle pasticcerie locali si continua a servire la versione originale, che nel tempo si è trasformata in una delle eccellenze culinarie del territorio.
Le parole della tradizione
Riportiamo qui di seguito la ricetta tradizionale della Santa Rosa, tratta dal testo ritrovato da Salvatore di Giacomo, poeta, drammaturgo e saggista napoletano.
«Prendi il fiore e mettilo sopra il tagliero nella quantità di rotolo mezzo. Mettici un pocorillo d’insogna e faticalo come un facchino. Doppo stendi la tela che n’è riuscita e fanne come se fosse una bella pettola. In mezzo alla pettola mettici un quarto d’insogna ancora, e spiega a scialle, quattro volte d’estate, e sei volte d’inverno. Tagliane tanti pezzi, passaci il laganaturo, e dentro mettici crema e cioccolata, o se più ti piace ricotta di Castellammare. Se ci metti un odore di vaniglia o pure acqua di fiori e qualche pocorillo di cedro, fa cosa santa. Fatta la sfogliata, lascila mezza aperta e mezza ‘nchiusa da una parte e dove là scorre la crema facci sette occhi piangenti con sette amarene o pezzulli di percorata. Manda tutto al forno, fa cuocere lento, mangia caldo e alléccate le dita!».